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Che su un film dedicato ad un argomento più che attuale - in epoca di revisionismi e ribaltoni di vario genere - come quello della Resistenza, che su una sceneggiatura tratta da uno dei romanzi, quello mitico di Luigi Meneghello più preziosi alla memoria italiana del dopoguerra, che su una pellicola di argomento e impegno produttivo insolito per il cinema di oltre frontiera si debba rispolverare il bisticcio risaputo del rapporto fra cinema e letteratura, è un vero peccato. Eppure, i guai cinematografici evidentissimi delle celebre storia scritta, a vent'anni di distanzada quel settembre del 1943 su un gruppetto di giovani studenti padovani che si ritrova sulle montagne a cominciare quasi per scherzo una lotta antifascista diventata di liberazione, risiedono proprio lì. In quella impossibilità di tradurre in immagini il non-detto tipico della parola scritta, l'intimismo colloquiale, la relativizzazione ironica, il segreto del tono letterario ( non certo dell'argomento trattato, come molte polemiche fuorvianti hanno indicato ) dell'opera di Meneghello. A meno (ma è sempre qui che si ricasca quando si discute letteratura in cinema) di avere il coraggio, se necessario, di stravolgere la sceneggiatura rispetto all'originale, e di rifinirla con l'intervento registico.

In I piccoli maestri non accade l'uno né l'altro. La scrittura si trascina di bozzetto in bozzetto, priva di un minimo di progressione drammatica, i dialoghi sono ampollosi o goffamente populisti, le conclusioni schematicamente e sbrigativamente mirate. E la regia di Daniele Luchetti (che ne Il portaborse, e pure in quel La scuola  visto nel 95 a Locarno brillava per leggerezza e misura) non riesce di certo a risolvere una situazione disperata. Piuttosto a suo agio in ciò che non ci si aspettava (la scelta degli ambienti, l'immediatezza delle scene d'azione), è invece terribilmente laboriosa proprio in quell'alveo che doveva riassumere la grazia ed il significato del film: la leggerezza, l'incoscienza, la felicità di un istante irripetibile come quello della gioventù messo a confronto con l'urgenza brutale della Storia.

Più che freschi, felici o feriti i giovani di Luchetti sembrano invece un po' vanesi: fotogenici e riccioluti come quelli della pubblicità per dopobarba, urlanti a squarciagola malgrado che i nemici spuntavano ad ogni istante, amoreggianti fra le mele acerbe come nei romanzi per signorine di buona famiglia sono sempre insopportabilmente seriosi o artificialmente colloquiali. In quanto al commento musicale, diciamo che è da denuncia penale: tanto è clamoroso il plagio del celeberrimo motivo di Morricone in C'era una volta in America...

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It is a pity that a film dedicated to a subject as topical as the Resistance - at a time of revisionism and upheavals of various kinds - and a screenplay based on one of the most precious novels, the mythical one by Luigi Meneghello, in the Italian memory of the post-war period, and a film with a subject and production commitment unusual for cinema on the other side of the border, should have to bring up the well-known quarrel about the relationship between cinema and literature. And yet, the evident cinematic problems of the famous story written twenty years after that September 1943 about a group of young Paduan students who find themselves in the mountains to begin, almost as a joke, an anti-fascist struggle that has become a liberation struggle, lie precisely there. The secret of Meneghello's literary tone ( certainly not of the subject matter, as many misleading polemics have indicated ) lies in the impossibility of translating into images the non-dictation typical of the written word, the colloquial intimacy, the ironic relativism. Unless (but it is always here that one falls back when discussing literature in cinema) one has the courage, if necessary, to distort the screenplay with respect to the original, and to refine it with a directorial intervention.

In The Little Masters neither of these things happens. The script drags from sketch to sketch, lacking a minimum of dramatic progression, the dialogues are pompous or clumsily populist, the conclusions schematically and hastily targeted. And Daniele Luchetti's direction (which shone in Il portaborse, and also in La scuola, seen in Locarno in 1995, for its lightness and measure) certainly does not succeed in resolving a desperate situation. Rather at ease in what was not expected (the choice of settings, the immediacy of the action scenes), it is instead terribly laborious precisely in that bed which was supposed to sum up the grace and meaning of the film: the lightness, the recklessness, the happiness of an unrepeatable moment like that of youth confronted with the brutal urgency of History.

Rather than fresh, happy or wounded, Luchetti's young people seem a little vain: photogenic and curly-haired like those in aftershave commercials, shouting at the top of their lungs despite the fact that enemies are popping up at every moment, flirting with unripe apples as in novels for young ladies from good families, they are always unbearably serious or artificially colloquial. As for the musical commentary, let's say that it is worthy of criminal prosecution: so clamorous is the plagiarism of Morricone's famous tune in Once Upon a Time in America...

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